Test Accesso Programmato 2024

MATERIA: COMPETENZE DI LETTURA E CONOSCENZE ACQUISITE NEGLI STUDI

Quesiti Risposta Multipla

153. Quale dei seguenti NON è un organo dell'Unione Europea?  
25. «È vero che abbiamo in loco una piccola pletora di castisti, ma essi in genere gestiscono per lo più figuranti, anche perché per le grosse produzioni i casting per gli attori sono già stati fatti a Roma. Sarebbe comunque di grande aiuto anche per le produzioni minori, cortometraggi compresi».
Che cosa indica in questo brano il termine pletora?
202. Leggere il brano e rispondere a ogni quesito solo in base alle informazioni contenute (esplicitamente o implicitamente) nel brano e non in base a quanto il candidato eventualmente conosca sull'argomento.  
Antonio è figlio di emigranti. Dopo la morte della madre viene affidato a una coppia svizzero-tedesca ma i suoi problemi psicofisici lo porteranno all'espulsione. Viene mandato a Gualtieri, in Emilia, luogo di cui è originario l'uomo che è ufficialmente suo padre. Qui vive per anni in estrema povertà sulle rive del Po fino a quando lo scultore Renato Marino Mazzacurati lo indirizza allo sviluppo delle sue naturali doti di pittore. Fa indubbiamente effetto assistere a pochissimi giorni di distanza dalla morte di Flavio Bucci a un film che ha al centro la sofferta vita di Antonio Ligabue.
Nel 1977 fu proprio Bucci, in quello che all'epoca si chiamava ancora "sceneggiato televisivo", in tre puntate per la regia di Salvatore Nocita, a dare uno scossone al modo di raccontare biografie in tv interpretando proprio Ligabue. In una versione cinematografica accorciata aveva vinto al Festival di Montréal il Gran Premio delle Americhe e quello per la Migliore interpretazione maschile. Non è difficile pensare che Elio Germano abbia avuto la consapevolezza di doversi confrontare con una prova d'attore che aveva segnato l'immaginario di una generazione. I confronti sono sempre complessi da affrontare ma in questo caso si può tranquillamente affermare che Germano non ha nulla da invidiare al suo predecessore. Ha saputo fare 'suo' Ligabue offrendogli quella profonda sofferenza interiore che sa spesso conferire ai personaggi che gli vengono proposti sul grande schermo.
A venirgli in aiuto in questo caso è anche l'altrettanto profonda conoscenza del mondo rurale emiliano che Giorgio Diritti possiede e che sa infondere nelle sue opere quando è necessario. Perché, a partire da quel corpo che si nasconde sotto un indumento/corazza da cui fuoriesce uno sguardo in cui paura e curiosità per ciò che lo circonda si contrastano, Diritti, grazie alla prestazione di Germano, ci racconta una vita dolorosa che dà luogo a un'arte in cui la vivacità cromatica è coinvolgente. Chiunque abbia visitato una mostra dedicata al grande pittore sa (e Diritti ce lo ricorda sui titoli di coda) quanto l'esplosione di forme e di colori ne costituisse il polo d'attrazione. Quasi che divenissero per lui strumento indispensabile per sfuggire alle sofferenze di un'esistenza marchiata dai disturbi mentali e dalla derisione. 
Tratto dalla recensione di "Volevo nascondermi" di Giancarlo Zappoli, 21 febbraio 2020, www.mymovies.it 


Antonio Ligabue:  
74. Quale architetto ha firmato il progetto della ricostruzione del Ponte Morandi a Genova?
123. A seguito di una recente modifica, la Costituzione italiana oggi tutela anche: 
172. Quale alternativa riporta il corretto ordine cronologico delle seguenti opere scientifiche?  
44. Leggere il brano e rispondere a ogni quesito solo in base alle informazioni contenute (esplicitamente o implicitamente) nel brano e non in base a quanto il candidato eventualmente conosca sull'argomento.  
Un momento di cesura nella rappresentazione del Meridione si verificò con i moti del 1848, animati dai liberali napoletani che chiedevano a gran voce libertà costituzionali per il Regno delle Due Sicilie. Il governo borbonico reagì con un’impietosa repressione: molti intellettuali si rifugiarono all’estero, in particolare in Piemonte. Il rapporto che gli esuli stabilirono con i paesi che li accolsero, permetteva loro di connotare sempre più negativamente la patria napoletana come “reazionaria”.
Il paese di accoglienza veniva contrapposto al regno borbonico, attraverso un processo di bipolarizzazione, come la civiltà alla barbarie: l’“Italia” divenne così l’alter del Regno di Napoli. In particolare, gli esuli articolarono il discorso su due fronti strettamente intrecciati tra loro: l’inefficienza dell’apparato di governo borbonico e la persistenza di tradizioni ancestrali che rendevano, a loro parere, le classi meridionali impermeabili alla modernità. La propaganda antiborbonica interagì con gli stereotipi sulla società meridionale che avevano preso forma nella cultura italiana ed europea nel secolo precedente. […]
Secondo la vulgata borghese, affinché l’Italia meridionale potesse raggiungere lo stesso livello di civiltà del Settentrione e dell’Europa occidentale, la razionalità doveva prevalere sulla superstizione e sull’irrazionalità dei suoi abitanti.
(Da: Conelli Carmine, Razza, colonialità, nazione. Il progetto coloniale italiano tra Mezzogiorno e Africa, in Deplano Valeria e Pes Alessandro “Quel che resta dell'impero. La cultura coloniale degli italiani”, Mimesis Edizioni)   


Quale delle seguenti espressioni definisce il concetto di "liberale" così come è utilizzato nel testo? 
221. Leggere il brano e rispondere a ogni quesito solo in base alle informazioni contenute (esplicitamente o implicitamente) nel brano e non in base a quanto il candidato eventualmente conosca sull'argomento.  
Caro Professor Lévi-Strauss, lo so, lei ci ha lasciati qualche mese or sono, ma le scrivo lo stesso, perché forse solo lei, dal suo meritato ritiro riuscirà a leggere lo sconforto. Noi quaggiù, che abbiamo studiato sui suoi libri e su quelli dei molti bravi antropologi culturali che hanno saputo costruire una disciplina in grado di leggere l’umanità con occhi diversi, ci siamo rimasti male. Male a vedere, che quasi un secolo di studi, di dibattiti per cercare di smontare, faticosamente, l’etnocentrismo, che ci accompagna tutti e far comprendere che non esistono culture superiori o inferiori ma semplicemente diversi modi di organizzare la società e le relazioni umane, non è servito a nulla. O a ben poco se nel 2010, dopo una riforma dei licei definita con modestia dalla sua autrice Mariastella Gelmini “epocale”, possiamo leggere nelle indicazioni nazionali dei licei delle Scienze Umane che tra i temi da affrontare ci sono le cosiddette culture primitive, il loro carattere prevalentemente magico-sacrale, e il passaggio alle cosiddette culture evolute. Speravamo che l’aggettivo “primitive” fosse rimasto solo un rigurgito del passato, magari utilizzato in conversazioni al bar, ma non che finisse in un testo governativo. È vero, hanno aggiunto un “cosiddette” per addolcire un po’, ma si potevano trovare ben altri modi o semplicemente si poteva parlare di culture e basta. [...]
E poi come giustificare il “passaggio alle cosiddette culture evolute”? Nelle pagine successive, abbandonata la prospettiva antropologica, infatti di culture non si parla più, ma solo di civiltà. Ça va sans dire che non si parla più di Africa, Oceania, Asia, ma della luminosa Europa. Loro, i primitivi hanno la cultura, noi la civiltà. Le hanno anche fatto un torto, professore: tra le letture consigliate hanno indicato proprio un suo libro, Tristi Tropici, di cui sinceramente ricordo le minuziose descrizioni delle pitture facciali dei Caduveo, le raffinate analisi sul loro concetto di simmetria, l’attenzione per la complessità dei sistemi simbolici e dei meccanismi narrativi delle popolazioni da lei incontrate. Ricordo il suo, talvolta persino pedante, disgusto nei confronti del passaggio alle “culture evolute”. Sono bazzecole, forse, ma rivelano come minimo scarsa attenzione al linguaggio. Perché se non è semplice sciatteria, allora è grave. Significa che tutto lo sforzo compiuto per dimostrare che la maggior parte delle dicotomie basate sul binomio noi/loro sono frutto di una nostra costruzione è stato vano.
(M. Aime, "Caro Lévi-Strauss ci perdoni", Il Manifesto, 28 marzo 2010) 


Dal brano si può verosimilmente dedurre che l'autore è: 
93. Leggere il brano e rispondere a ogni quesito solo in base alle informazioni contenute (esplicitamente o implicitamente) nel brano e non in base a quanto il candidato eventualmente conosca sull'argomento.  
Dimenticate Indiana Jones. Le avventure in luoghi esotici. I lunghi periodi trascorsi isolati in savana o nella giungla. I ponderosi volumi che raccolgono anni di studio. L'antropologia è cambiata: sempre meno studia i popoli lontani, sempre più documenta i mutamenti in atto nelle società. E oggi l'antropologo occidentale lo fa in collaborazione con i colleghi locali. Interagisce con specialisti di altre discipline e collabora con istituti di ricerca e università come pure Ong o imprese profit. Si sono aperte nuove opportunità, di ricerca e anche professionali, per i giovani che sappiano e vogliano coglierle.
L'antropologia, nata nell'Ottocento, si è strutturata come disciplina ai primi del Novecento. Le grandi potenze avevano conquistato l'Africa, ma non la conoscevano. Volevano sapere con quali popolazioni avevano a che fare. «Gli antropologi – spiega Marco Aime, professore di Antropologia culturale all'Università di Genova –, pur in gran parte anticolonialisti, erano finanziati proprio dagli Stati coloniali. Non è un caso che le nazioni che più hanno dato alla nostra disciplina siano state Francia e Gran Bretagna». Gli antropologi si recavano sul posto e vi rimanevano per anni, analizzando ogni aspetto della cultura che incontravano. «Ne risultavano monografie che sono rimaste nella storia – continua Aime –, ma rileggendole oggi si nota che sono datate. Anzitutto erano scritte per un pubblico occidentale, non per i locali. Dubito che un Nuer degli anni Quaranta abbia mai letto la monografia sui Nuer di Evans-Pritchard. In secondo luogo, riflettevano un punto di vista tutto occidentale. Le popolazioni locali non partecipavano in alcun modo alla ricerca». A partire dagli anni Settanta, il panorama cambia.
La vecchia figura dell'antropologo finisce in soffitta. La ricerca sul campo rimane imprescindibile, ma gli studi diventano più complessi. «Se parliamo di scoperte – osserva Aime –, possiamo dire che in antropologia è stato scoperto… tutto. Nel secolo scorso è stato fatto un atlante delle popolazioni raccontandole nel dettaglio. Oggi non si studiano più le popolazioni, ma i processi. Per esempio, i cambiamenti che avvengono in città, il sincretismo culturale, come i giovani africani si approcciano al web, ecc.». Anche le ricerche non vengono più elaborate solo per un pubblico occidentale. «Ormai (ed è giusto così), le popolazioni vogliono essere protagoniste – osserva Anna Casella Paltrinieri, docente di Antropologia culturale all'Università Cattolica –. Vogliono conoscere ogni aspetto delle nostre ricerche. Inoltre, sul campo ormai lavorano anche antropologi locali molto preparati. Non si può più prescindere dalla loro collaborazione».
(Tratto da: "Professione antropologo" di Enrico Casale, rivista Africa)   


Il lavoro dell'antropologo oggi NON ha a che fare: 
142. L’invenzione della lampadina a incandescenza è attribuita a: 

Ricette e drink

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